domenica 23 maggio 2010

SUN DIAL OTHER WAY OUT 1990


Probabilmente ci si trova difronte ad uno dei dischi fondamentali e non ci si è mai accorti della sua presenza. Quando ci si accorge dell'importanza delle cose? o della loro presenza? Sicuramente nel momento in cui sbattono sul nostro crapone. Si disintegrano, si spargono sul corpo in tanti pezzentini, frantumati dalla sorpresa di averli trovati. I Sun Dial arrivano a me in una scatoletta di plastica grigia dall'inghilterra precisamente da Londra, di quelle ripieghevoli, uguale ad altre centinaia, che nascondano a loro volta migliaia di universi in custodie di plastica, nessun titolo si somiglia all'altro, ma oggi, il consumo musicale, non più fruizione o ascolto, tutto lo assimila al prezzo, a numeri economici e non a numeri che conpongono scale composte da note, create da teste differenti e accecate dall'esigenza di raccontare. i Sun Dial nascevano nella massima fioritura di queste cornici di plastica, uova che nascondevono un CD, una copertina lugubre, gotica ed oscura, sembra voler citare la londra dei Black Sabbath, con quel castello probabiblmente eretto dietro la musa che nella Cover Sabbathiana ci sorride da lontano. Attaccano i Sun Dial come l'Alprazolam nella mia testa, sedano le eccitazioni incontrollate, con il loro flauto, Gary Ramon con la sua chitarra uccide riverberando le incoscienze, chiama a risorgere Barrett, convoca Wright, insomma più Pink Floyd che non si può, si tratta di psicadelia e non di crema alle nocciole al posto della Nutella. A stupirmi è la violenza di Exploding In Your Mind, che anticipa di 3 anni la rivoluzione Kyussiana, ancor oggi elevata a segno divino, mentre un anno prima con Spine of God i Monster Magnet spargevano acidi nel deserto, e senza accorgesene Londra riprendeva il suo trono di perversione acida e la chitarra distorta di Ramon ne era una prova. Magic Flight fa camminare Wyatt, lo alza come Lazzaro, in preda alla psicosi di riformare i Soft Machine al più presto, la sua barba si riconfonde negli echi del suo lancio, nel vento che percorse i suoi folti capelli lunghi e il suo cervello stregato da Hoffman. Insomma buttatevi a capofitto senza respirare dentro questo Walalla colorato, potreste incontrare sicuramente il Fauno che vi cerca tutte le notti.

martedì 4 maggio 2010

White Noise An Electric Storm 1969



il 1969 è un anno horribilis per il rock'n'roll, almeno, lo è per quello più ingenuamente consumistico, le melodie e il loro conseguente apporto emotivo cominciano a sfumare. Così come le candele al mango e al mandarino che hanno profumato la mia buca, le droghe profumano tanto e volentieri le intelligenze formate amabilmente da Albert Hoffman, che attraverso il suo discepolo Timoty Leary, iniziano a maturare velocemente nei salotti impegnati (certo non solo di mango e mandarino) di musicisti e artisti formati al conservatorio e influenzati dal germe della psicadelia quanto quello della musica concreta o dalle dissonanze di Berio o Stockhausen. I White Noise pensavano la loro composizione musicale attraverso le vetrine colorate che publicizzavano dischi dei Beatles, Rolling Stones, Monkees e Turtles, e probabilmente si sentivano braccati da una musica che sposava ben altri stimoli nella loro mente, a parte le droghe, l'amore o il rock'n'roll, chi sbagliava?
Questo non si può sapere, l'errore per i White Noise era un punto di partenza, sopratutto per quella fatucchiera di Delia Derbyshire , un genio, una piccola Paul Klee del Moog che assieme a Brian Hodgson, diedero vita a questo progetto musicale sotto la spinta e la produzione dell'artista elettrico ed analogicamente elettronico David Vorhaus.
la Derbyshire era un folletto che saltava qui e là negli studi della BBC, occupandosi di vari accompgnamenti muicali per i programmi che abitavano quel canale, fino ad arrivare alla sigla dell'oscurissimo Doctor Who, un intreccio unico di colori sonori che andavano a costruire progressivamente un marcatissimo senso d'impotenza di fronte alla bellezza e all'incisività di quel pezzo. Così questo An Electric Storm si batezzava nella Nazareth della promiscuità, fin dal primo pezzo Love Whitout Sound che nel suo titolo concretizza lo stato d'animo musicale dei due, fatto di tutti coretti che andranno a sbocciare assieme alle macchine nelle incessanti grida di piacere di My Game Of Loving, manifesto del sesso intellettuale. Il collage di rumorini spiritosi prodotti dall'abilità della Derbyshire si faranno uomini con Firebird, l'uccello di fuoco dei due Freak, di una bellezza barocca, celebrano Mozart alla maniera di Wendy Carlos che tanto li ha stregati a mio avviso, con i suoi lavori d'interpretazione kitch elettronica dell'austriaco genio, e delle veloci fughe di Bach. Un disco questo che non appare facilmente, bisogna aspettarlo come le visioni di Lourdes, arriva quando dice lui, mistico e potente capace più dell'elisir D'Amore.

lunedì 3 maggio 2010

Alamamegretta Sanacore 1995



Il 1995 in Italia rappresentò una forte linea di demarcazione nella musica cosidetta alternativa italiana. Il 1995 voleva significare una fine quasi certa, del modo d'intendere un certo essere o mood contro-musicale che si era sviluppato fino ad all'ora, tutto pregno di Punk più o meno istituzionale, di New Wave del vicino con l'erba più bella e di gargarismi sperimentali new-yorkesi, recepiti malissimo o male. Gli Almamegretta c'entravano per vie traverse nel paorama alternativo istituzionale del periodo, attraverso le vie dei centri sociali, dagli echi hip-hop maturo e distintivo delle Posse italiane, a neonati combi autodafè di djset reggae . Anche la critica musicale nostrana, mi viene in mente Rumore (Blow up ancora non esistiva, grazie a dio meglio agli dei) ne parlò in maniera entusiasta ma molto molto strana però, totalizzante, nel senso che la critica al disco non veniva rilegata settorialmente (ovvero questo è un disco dub-reggae per gli amanti del genere e qundi bla bla bla...), ma al contrario veniva allargato un consenso nell'articolo alla bellezza del disco, rompendo barriere fatte di capelli lunghi e maglioni slabrati, anfibi ed ecstasy, Puma e Lotti assortiti nelle sale prove. Raiz è un pescatore d'anime in questo disco (quelle anime perse attraverso Protection dei Massive Attack perla della spaccatura istituzionale), getta la sua rete e tira senza sapere cosa possa finire all'interno, lo fa con una canzone come "Pè dint 'e viche addò nun trase 'o mare", ruba a a 3D le litanie sacre dell'hascish e le sostituisce con il profumo del soffritto del ragù napoletano, più pesante ed efficace. "Sanacore" basa il messaggio di appartenenza vitale alla cultura partonopea, sono quelle rullatine distorte rubate a King Tubby, giocatore d'azzardo del mixer, che dicono che la questione appartiene alla cultura cosmopolita, senza barriere ai figli di origine africana che costellano i vicoli di Napoli. Cosa soprende sempre tanto è che non ci si accorge mai della nostra musica nel mondo così detto alternativo, i preconcetti in questo mondo sono pesanti, fatti di cattiveria dovuta all'incapacità paradossale di ascotare tutto ciò che è fuori dai nostri confini, si acquisiscono dogmi altrui senza capire l'altrui, sembra che quella vanità dovuta al bel canto italico acciechi le orecchie, mi spiego: il mondo alternativo italiano, almeno quello che conosco io, si è sempre vergognato di alzare in toto la musica italiana leggera come forma d'ispirazione o cambiamento delle strutture musicali "Diverse". In questo disco si anticipa di quasi 13 anni, tutto il fenomeno del Dubstep o del Future dub, tanto inglese, tanto amato dai salotti engagè che si formano nelle discussioni fra i prescelti che animano il mio negozio e le code per andare ad ascoltare gruppi indiscutibilmente hypsters. Frasi del tipo Shackleton è dio, la compilation della Hyperdub è la Bibbia concimata dal seme congiunto di Burial con Kode 9 fanno sorridere, se dette da persone con più di 25 anni, che non hanno mai ascotato una canzone come "Tempo", e che fanno apparire Vex'd o Scuba come due novizi con la chierica, incolpevoli di essere posti su di un trono, quello della critica italiana orale e scritta, fatto di stracci vintage e sushi cinese, "Nun te scurda".